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Sindacato

Usa         I sindacati ricominciano dal basso
 
Starbucks, baristi e clienti uniti... nel sindacato            

 

Nella catena di caffetterie se qualcuno non si presenta al lavoro perché malato o va al bagno durante il suo turno, può essere licenziato. Da questa pesante condizione è nata l’idea di organizzare dal basso una Union molto particolare
di Michele De Gregorio

Per conoscere le nuove frontiere del sindacalismo americano e le sue difficili battaglie per difendere i diritti dei lavoratori sempre più precari e meno pagati delle grandi catene del terziario (dalla ristorazione all’industria del divertimento) conviene fare una puntata al Mall of America (Moa). Il Moa, vicino alle Twin Cities di Minneapolis e St.Paul, nel Minnesota, è attualmente il secondo centro commerciale più grande degli Stati Uniti. Fondato nel 1992, con i suoi 520 punti vendita delle grandi catene commerciali, distribuiti su quattro piani, offre lavoro a più di 12.000 dipendenti. Grazie a una rete di compagnie di viaggio che offrono voli speciali, ogni anno il centro commerciale attira tra i 35 e i 40 milioni di visitatori, provenienti non solo dalle città gemelle e dagli Stati limitrofi, ma anche dall’Europa e dal Giappone. A differenza dei grandi centri commerciali del passato, che offrivano principalmente prodotti a prezzi vantaggiosi per le comunità suburbane locali, il Moa vorrebbe rappresentare sia una vetrina dei grandi marchi commerciali che un luogo di socializzazione, dove i suoi clienti possano sentirsi parte integrante di una global community. Così il Moa offre non solo negozi classici dove fare acquisti, ma anche diversi spazi d’incontro: un parco gigante di 10 ettari, un acquario, una “Cappella dell’Amore” e diversi punti di ristorazione, che permettono ai visitatori di stabilire un rapporto di intima familiarità con il luogo.

Uno di questi è la caffetteria della catena Starbucks, situata al primo piano. Apparentemente questa caffetteria non ha nulla di diverso rispetto agli altri negozi della multinazionale del caffè, diffusi ormai in tutto il mondo. Come tutti i coffee-shop di Starbucks, anche questo si riconosce dall’esterno per il logo verde con la sirena con le due code, stampato sulle grandi vetrate. Una volta dentro, i colori tenui delle pareti, le luci soffuse, le ampie poltrone e i comodi tavolini di legno infondono la tipica atmosfera piacevole e distensiva delle caffetterie di Starbucks. Così pure i suoi giovani dipendenti, i baristas, indossano il grembiule verde, fanno uscire dalle macchine fumanti frappuccinos, i bicchieroni di caffellatte corretti con diversi sciroppi, e sorridono ai clienti come prescritto dal codice di condotta aziendale.

Entrando in questa caffetteria nessuno sospetterebbe mai che dietro questa patina new age si “nasconda” una roccaforte controllata da combattivi lavoratori in lotta contro la loro azienda, capaci di organizzare un sindacato fortemente innovativo. Proprio in questo centro commerciale modello, dove le grandi catene sono riuscite a creare una cittadella avveniristica, coniugando le condizioni di lavoro della fabbrica di Dickens con l’estetica postmoderna di Blade Runner, nel 2006 i baristas di Starbucks si sono organizzati per rivendicare non solo paghe più alte e turni di lavoro più umani, ma soprattutto il diritto dei lavoratori di esprimere le proprie idee.

Questa battaglia per la democrazia nei luoghi di lavoro, che si è sviluppata sull’onda delle lotte dei baristas di New York, ce la racconta direttamente Erik Forman, un dipendente di Starbucks del Moa, licenziato ingiustamente il 10 luglio del 2008 per la sua attività sindacale e riassunto il 14 agosto dopo aver vinto la causa con la multinazionale. Forman ha ventiquattro anni ma già alle spalle dieci anni di lavoro precario e sottopagato. Al Moa è arrivato nel 2006 e si è subito scontrato con condizioni di lavoro particolarmente dure. “L’organizzazione dell’orario di lavoro di Starbucks è veramente imprevedibile – racconta –. Bisogna essere sempre disponibili a lavorare come e quando decidono i nostri capi. Ogni settimana pianificano il nostro lavoro come se stessero trattando dei chicchi di caffè e non dei lavoratori. La direzione utilizza un programma computerizzato chiamato Star Labor che, registrando i dati relativi alla vendita di ogni singolo prodotto, consente di elaborare turni settimanali su misura per ogni dipendente secondo le necessità aziendali. Ad esempio se è prevista una fascia oraria fiacca dal punto di vista delle vendite, rimaniamo a casa. Ovviamente molti attivisti del Swu (Starbucks Workers Union) hanno subìto forti riduzioni dell’orario settimanale come ritorsione per aver organizzato attività sindacali. Questa è una delle ragioni principali che ci ha spinto a organizzarci sindacalmente. I nostri orari di lavoro sono estremamente flessibili, possono cambiare da settimana a settimana e in alcuni casi essere ridotti a poche ore settimanali. Questo rende molto difficile per i baristas part-time poter fare progetti per il proprio futuro, riuscire a far fronte a spese improvvise, poter svolgere un secondo lavoro o badare ai figli.

Da Starbucks ogni barista ha un suo orario di lavoro personalizzato. Abbiamo solo dieci minuti di pausa ogni due ore, ma se siamo sottorganico non possiamo prenderci nessuna pausa. Se qualcuno non si presenta al lavoro perché malato o si prende una pausa per andare al bagno durante il suo turno, può essere licenziato. Inoltre molti di noi, in quanto lavoratori part-time, non riescono a raggiungere il numero di ore di lavoro sufficienti per poter accedere al piano di copertura sanitaria aziendale”. Da questa pesante condizione nasce l’idea di organizzare dal basso un sindacato. Forman: “Tutto ebbe inizio nell’autunno del 2006, quando parlai con una mia collega della necessità di costituire un sindacato. Tuttavia, quando venimmo a sapere dei licenziamenti di alcuni organizzatori della Starbucks Workers Union di New York per le loro attività sindacali, decidemmo di cambiare i nostri piani: prima di tutto occorreva stabilire dei contatti con i baristi delle altre caffetterie di Starbucks diffuse nell’area metropolitana (in quel periodo esistevano più di sessanta negozi di Starbucks concentrati nel centro di Minneapolis). Finché non avessimo raggiunto una larga base di simpatizzanti, il nostro comitato sarebbe rimasto una struttura sotterranea. Così è nato il nostro primo comitato organizzativo”. La difficoltà ulteriore del progetto risiedeva anche nel fatto che il settore era ed è caratterizzato da una forte mobilità occupazionale: l’alto turn-over degli addetti crea enormi difficoltà per riuscire a mantenere una rete organizzativa stabile tra le caffetterie e così già nel 2007 proprio a causa di questa forte mobilità questo primo comitato organizzativo praticamente non esisteva più.

“Così decidemmo di ristabilire una nuova rete e di uscire allo scoperto nella primavera del 2008 – riprende il sindacalista –, sviluppando un approccio organizzativo basato sulla forza dei rapporti di solidarietà tra i lavoratori e sull’azione diretta nei luoghi di lavoro: volantinaggi, picchetti, raduni di massa, blocco delle linee telefoniche, fermate improvvise e rallentamenti dei ritmi di lavoro”. In questa ottica è essenziale il coinvolgimento nelle proteste dei clienti, che diventano fondamentali per vincere la resistenza dell’azienda. Ad esempio quando la direzione generale di Starbucks la scorsa estate decise di chiudere seicento caffetterie molti clienti hanno fatto circolare delle petizioni con il sostegno dei lavoratori, in cui veniva chiesto che rimanessero aperte e venissero salvati i posti di lavoro.

L’Iww ha poi un’altra particolarità organizzativa: proprio per l’estrema mobilità del settore, i suoi iscritti non rimangono fermi a lungo in nessun luogo ma si spostano continuamente, restando membri del sindacato. L’iscrizione viaggia con i lavoratori e questo rappresenta una grande ricchezza: “Tutti i nostri membri devono diventare organizzatori attivi e sviluppare capacità d’iniziativa, di direzione e di trasmissione delle loro esperienze agli altri lavoratori – sottolinea Forman –, permettendo così al sindacato di espandersi in altri settori. Questo modello, che noi chiamiamo ‘sindacalismo solidale’, crea numerosi grattacapi ai nostri dirigenti aziendali”. Insomma: se il turn over è alto e il lavoro si sposta continuamente, il sindacato è forte quando non sta mai fermo e trasforma i suoi iscritti in sindacalisti a tutti gli effetti.

Insubordinazioni creative
L’ondata di mobilitazione che negli Usa sta sperimentando nuove forme di lotta sindacale a tutto campo, in tempi in cui la frammentazione del lavoro e la proliferazione di una massa di lavoratori precari e a bassi salari – spesso immigrati – ha reso particolarmente difficile la difesa dei loro diritti, è partita da New York, dalla celebre catena di Starbucks. Tutto è cominciato sei anni fa, quando i dipendenti di una caffetteria della grande catena, la numero 7.356, situata nel cuore commerciale di New York, all’angolo tra la Madison Avenue e la Trentaseiesima strada, svilupparono in modo sotterraneo forme creative di insubordinazione per formulare rivendicazioni collettive: aumenti salariali, fine del sistema dei turni settimanali flessibili, estensione del programma di assistenza sanitaria per tutti i dipendenti part-time che non raggiungono le quaranta ore di lavoro, cessazione dell’utilizzo di pratiche antisindacali e, infine, la possibilità per i singoli dipendenti di svolgere liberamente attività organizzative, anche nel caso in cui la maggioranza dei lavoratori non sia iscritta a un sindacato. Dal 17 maggio del 2004 grazie a questo piccolo nucleo, costituito originariamente da soli tredici membri, la più grande catena mondiale del caffè ha dovuto iniziare a fare i conti con la presenza nelle sue caffetterie di un sindacato militante: la Starbucks Workers Union (Swu) affiliata alla celebre Iww (Industrial Workers of the World).

Da questa caffetteria di New York i lavoratori precari di Starbucks hanno iniziato un lavoro durissimo per organizzare e mobilitare i baristas, ricorrendo a picchetti mobili, pronti a spostarsi da un punto all’altro della città, a comizi e volantinaggi fulminei all’interno dei negozi o per strada, e al rallentamento del ritmo di lavoro nei momenti di massima affluenza dei clienti, grazie al sostegno esterno dei militanti dell’Iww, i wooblies. Una delle tattiche preferite da questi militanti, come spiega Daniel Gross, fondatore della Swu, consiste nel concentrarsi in gruppo in una caffetteria, mettersi in fila, ordinare qualcosa e pagare centesimo per centesimo. La campagna organizzativa dei baristi di Starbucks si è diffusa in altre grandi città del paese come Chicago, Minneapolis, Grand Rapids e nella baia di San Francisco. La catena del caffè non ha esitato a utilizzare ogni forma di intimidazione per scongiurare la sindacalizzazione di altre caffetterie, ma i nuovi wobblies hanno denunciato l’azienda al National Labor Relations Board (l’organo governativo che si occupa delle relazioni industriali), che fino a oggi ha sempre dato ragione al sindacato e imposto a Starbucks di riassumere i baristi licenziati, pagare i salari non corrisposti e cessare ogni forma di pratica antisindacale.

La Swu promuove anche nuovi strumenti di collegamento tra i lavoratori che stanno facilitando dal basso la formazione di una vera e propria solidarietà internazionale: vengono diffuse video-interviste su Youtube, creati siti di controinformazione (www.wobblycity.org), newsletter, catene di e-mail, forum. Così, ad esempio, il 5 luglio del 2008 i baristi irlandesi, spagnoli e americani hanno manifestato insieme contro il licenziamento di Monica, dipendente di uno Starbucks a Siviglia, e Cole Dorsey, barista presso Grand Rapids, nel Michigan (Usa), entrambi cacciati per aver tentato di organizzare il sindacato nelle caffetterie. Insomma: è nata una rete organizzativa, formata da attivisti dei movimenti sociali e dei sindacati, che attraversa dal basso i paesi e i continenti, rivendicando migliori condizioni di lavoro e diritti per tutti i lavoratori precari del mondo.

(da Il Mese) Rassegna Sindacale n.28 luglio 2009